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12:43:00 - 30 SETTEMBRE 2015

'ROCCELLA JAZZ FESTIVAL 2015' ATTRAVERSO GLI OCCHI DELL'ESPERTO PROF. ROSSI

'ROCCELLA JAZZ FESTIVAL 2015' ATTRAVERSO GLI OCCHI DELL'ESPERTO PROF. ROSSI -

Si è conclusa la sessione estiva della XXXV edizione del Roccella Jazz Festival e, mentre l’Associazione Culturale Jonica ègià al lavoro per quella invernale (che si terrà dal 23 al 30 dicembre), abbiamo intervistato uno spettatore “speciale” del festival,  il Prof. Giuseppe Rossi, per fare un bilancio della rassegna di agosto. Rossi (che èprofessore associato di diritto comparato presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano e avvocato del Foro di Milano) segue il Festival dal 1994 ed èun appassionato ed esperto di jazz.


 


-      Prof. Rossi, cosa distingue Roccella Jazz da altri festival e perché riesce sempre ad avere una certa attenzione da parte dei media nazionali e internazionali?


 


Nel panorama affollato dei jazz festival italiani, Roccella Jonica continua a segnalarsi per la presenza di un progetto culturale, che fa sì che ogni edizione rappresenti non una mera rassegna di concerti, con "nomi" piùo meno attraenti, bensìun'occasione di creazione artistica e riflessione culturale intorno a un tema.

L'ispirazione iniziale èsintetizzata in modo felice nella denominazione "Rumori mediterranei".

"Rumori" per indicare, col riferimento provocatorio al suono non intonato, la predilezione per ciòche non èconforme alle convenzioni, per l'inaspettato che ogni adepto del jazz ricerca, sulle orme dei grandi.

"Mediterranei" per alludere alla pluralitàdi culture che concorrono, sin dai tempi di New Orleans, alla definizione del linguaggio jazzistico, comprese, inaspettatamente, quelle mediterranee (gli atti del convegno su jazz e culture mediterranee, organizzato molti anni fa nell'ambito del Festival, hanno oggi un valore pionieristico).

La "mediterraneita'" dei "rumori" ha però un altro, piùsottile, significato: il jazz, al contrario di altre forme di espressione musicale, non ricerca l'asetticità, ma vive di interazione con il contesto. Il jazz di Roccella è"mediterraneo" perchési alimenta delle sensazioni che i luoghi del Festival suscitano: èjazz che nasce a Roccella e vi assume una fisionomia, anche quando èsuonato da musicisti d'oltreoceano, portatori di una loro definita poetica, magari aliena da ogni percettibile forma di mediterraneità.


 


-      In che modo il festival riesce a essere terreno fertile per l’innovazione?


Il Festival privilegia da sempre le produzioni originali, favorisce incontri tra musicisti ed artisti di altri ambiti, magari inattesi, cerca di innescare la chimica di artisti, luoghi e pubblico che conduce non a semplici esibizioni piùo meno riuscite, ma alla reale comunicazione di sensazioni.

Il Festival, dunque, non èsoltanto una manifestazione concertistica, ma il vero e proprio apporto di Roccella, e del territorio circostante, ad una storia artistica universale, come èormai quella del jazz.


 


-      Secondo lei ècambiato questo tipo di approccio negli ultimi tempi?


La XXXV edizione èrimasta fedele a questo approccio caratteristico, a partire dal titolo "African Noises": l'africanizzazione dei "rumori"  allude non soltanto al tema classico del rapporto tra jazz e Africa, con la sottintesa ricerca delle "radici", ma anche al relativamente nuovo fenomeno del jazz "afro-europeo", nato dall'integrazione tra musicisti europei, di cultura jazzistica, ed africani.


 


-      Ci sono dei progetti, ascoltati quest’anno, che l’hanno colpita più di altri?


Tra i progetti presentati nell'ambito del Festival che hanno evocato espressamente la musica popolare - delle "radici", non per forza africane - il duo denominato, appunto, "Radici" del pianista Virginio Aiello e del sassofonista Danilo Guido ed il quintetto del contrabbassista Francesco Marcocci, che ha presentato il progetto Folklorica.

Il duo ha indotto a pensare quanto fosse ingenerosa, ed in fondo di maniera, l'affermazione, attribuita a Miles Davis, secondo cui il jazzista non afroamericano sarebbe qualcuno che parla una lingua straniera: piuttosto, ènaturale, nell'improvvisazione che rispetta una grammatica jazzistica, ricercare ed esprimere le proprie radici musicali, generando un'interazione che non snatura, ma arricchisce i linguaggi.

Il quintetto di Marcocci ha innestato elementi di varie tradizioni folcloriche, italiane e sudamericane, di ritmo e melodia, su un robusto impianto jazzistico, assicurato da una sezione ritmica innervata dal drive del leader e dal solido pianismo dell'"astro nascente" Leo Genovese, e dalla front line composta dal sassofonista Godwin Louis, notevole per sonoritàed inventiva, e dall'ospite e collega di strumento Gavino Murgia. Quest'ultimo ha confermato di essere una delle voci piùoriginali del jazz non solo italiano, capace, in particolare, di arricchire la lezione dei maestri del sax soprano con elementi di schietta originalità, ispirati dalla vocalitàe dai fiati della tradizione sarda.


 


-      Il festival ha ospitato dei nuovi talenti. Chi si èdistinto per spessore?


La profonditàdei linguaggi del jazz contemporaneo si èpercepita in modo nitido nel piano solo di Francesco Scaramuzzino, che ha mostrato una gamma di influenze assai piùampia, anche in senso storico, rispetto agli inevitabili riferimenti di molti pianisti, soprattutto italiani, contemporanei. Echi di Teddy Wilson, Bud Powell, Jaki Byard, Herbie Hancock, accanto a composizioni originali non prive di interesse, hanno attraversato un concerto che ha ricordato che il piano jazz nonècominciato, ne' finito, con Bill Evans o Keith Jarrett.


 


-      Nella storia del Festival c’è stata sempre una componente di rischio nella scelta dei musicisti. Poche cose scontate. Quest’anno erano presenti dei gruppi di afro-europei e alcuni di essi erano delle assolute novità per l’Italia. Cosa ne pensa di queste scelte?


I concerti di jazz afro-europeo hanno mostrato esiti alterni, che si prestano a varie riflessioni.

Il sassofonista nigeriano Julius Orlando, affiancato dall'onesto gruppo di accompagnatori inglese Heliocentrics (nessun riferimento a Sun Ra ...), e da una grintosa cantante-danzatrice di grande presenza scenica, ha divertito molto, e fatto ricordare quanto la ricezione del jazz "di ritorno", in contesti extra-statunitensi, abbia influenzato, magari re-innestandosi su quegli stessi elementi tradizionali apportati al jazz, la musica cosiddetta "pop", un tempo chiamata "leggera", contro cui Adorno, invero senza troppe distinzioni e con uso generico del termine "jazz", lancio' i suoi strali, ritenendola svilimento e mercificazione dell'arte musicale.

Questo fenomeno, ancora in gran parte da approfondire, ha certamente interessato l'Africa sub sahariana, non èrimasto estraneo alla creazione di stili caraibici, come lo ska e il reggae.

Nel concerto di Julius Orlando, comunque, c'era ben poco di "europeo": o meglio, si èrivelata l'origine africana di riff e schemi ritmici che affollano da decenni il rock ed il pop europei.

Altri esempi proposti dal Festival possono meglio definirsi "afro-europei": in alcuni casi, come quello dei Gansan e Tamount Ifassen, il mix tra jazz europeo e musiche delle tradizioni africane - in quel caso - maghrebine, ha funzionato meglio: in altri si èpencolato pericolosamente dalle parti della world music, una mistura di tradizioni musicali eterogenee che, come certi piatti con troppi ingredienti, finisce col non aver sapore alcuno.


 


-      Quali sono state le produzioni più importanti del Festival di quest’anno, secondo Lei?


Le vere perle della XXXV edizione, comunque, sono state i concerti del trio di Roscoe Mitchell e del Golden Quartet di Wadada Leo Smith, che hanno tratto autentica linfa dall'atmosfera speciale del Teatro al Castello (caratterizzato dal fatto, raro quanto assai indovinato, di offrire ai musicisti sul palco, anzichéal pubblico, il panorama migliore, che svolge cosìla funzione di fonte di ispirazione, anzichéquella consueta di scenografia naturale).


 


-      Si tratta di musicisti che appartengono alla cosiddetta scuola di Chicago. Cosa rappresenta questo movimento d’avanguardia nella storia del jazz?


La scuola di Chicago rappresenta un vertice della creativitàmusicale del secondo novecento: formatasi intorno alla figura carismatica e fortemente innovativa di Muhal Richard Abrams (protagonista di un memorabile concerto al Festival negli anni ottanta, NdR), nel suo ambito si sono sviluppate, nell'arco di un cinquantennio, personalitàmusicali che, pur richiamandosi ad una medesima estetica, hanno sempre mostrato spiccatissime individualità.

L'ereditàafricana ècertamente uno degli elementi caratteristici della scuola di Chicago, cui risale lo stesso concetto di "great black music", e che ha sempre enfatizzato la forte continuitàdel percorso musicale afro-americano, a partire dalle radici africane, sintetizzata in modo felice dal motto "ancient to the future".

I chicagoani, pur attingendo ampiamente ad altri ambiti, come le avanguardie "colte" europee ed americane, hanno rivendicato in modo costante la negritude della propria musica, a livello estetico (i trucchi di scena di alcuni componenti dell'Art Ensemble of Chicago), tematico (i richiami alla storia afroamericana contenuti pressochéin ogni lavoro dei membri della scuola, da ultimo il monumentale "Ten Freedom Summers" di Wadada Leo Smith, o le evocazioni delle vicende di popoli africani o di origine anche africana, come i giamaicani), e strettamente musicale.


 


-      L’attenzione dei critici, infatti, si èpolarizzata su di loro. Perché?


Roscoe Mitchell ha presentato il proprio trio, completato dal contrabbassista Jaribu Shahid, di grande potenza e flessibilità, con una lunga esperienza al fianco di Sun Ra, e dal batterista Tani Tabbal, il cui stile si caratterizza per la continua frammentazione e ricostruzione del tempo.

Il concerto èstato un'ininterrotta esplorazione sul suono e sul ritmo, caratterizzata dall'inaspettato, cominciando dall'apertura: una partitura per batteria sola, sfociata in un lungo assolo di Tabbal. Sax e contrabbasso sono entrati con il brano "Chant", lunga sequenza di seconde minori discendenti e maggiori ascendenti, ispirata dal mimimalismo, su cui basso e batteria, svolgendo ruoli, in effetti, solisti, hanno innestato melodia segmentata e ritmo continuamente frammentato.

Le improvvisazioni di Mitchell, che ha alternato il sax soprano all'inconsueto sopranino, si sono imperniate non solo sulla velocitàe sull'ampiezza del fraseggio, resa possibile dall'ampio uso della respirazione circolare, ma soprattutto sulla capacitàdi scegliere intervalli e scale caratterizzate, piùche da dissonanze, da costante ambiguitàtonale, che genera al tempo stesso tensione ed ipnosi, al punto da dare spesso l'impressione che a suonare fossero due sassofonisti.

In chiusura, il classico "Odwalla", eseguito dal leader al sax alto, ha dato una sensazione rassicurante: la presentazione dei musicisti scandita sul tempo da Roscoe Mitchell ha emozionato non poco chiunque ricordi i concerti della formazione storica dell'Art Ensemble ("yours truly Roscoe Mitchell on woodwinds ...").


 


-      Come giudica, invece, la perfomance di Smith?


Wadada Leo Smith èuno dei musicisti piùcreativi sulla scena mondiale, ed il Golden Quartet, completato da tre fuoriclasse come il pianista Anthony Davis, il contrabbassista John Lindbergh ed il batterista Pheeroan AkLaff, e' la sua attuale formazione di riferimento.

Il concerto di Roccella ha mostrato la capacità della musica di Wadada, che non a caso compone per gruppi cameristici ed orchestra, di unire un respiro autenticamente orchestrale ad una costante tensione ritmica.

Alla tromba, il leader, la cui mera presenza sulla scena èdi grande capacitàevocativa, ha una sonoritàtersa che, evolvendo dal modello davisiano, sottintende una grande sensazione di forza dietro l'apparente fragilità: gli interventi di Wadada, mai sovrabbondanti, hanno definito il mood di esecuzioni in cui gli altri musicisti, non certo relegati al ruolo di pura sezione ritmica, hanno potuto mostrare le proprie qualitàdi solisti.

Il pianismo di Anthony Davis si ècaratterizzato per l'unione di una grande libertàimprovvisativa alla cantabilita delle melodie, oltre che per il pieno sfruttamento, non frequentissimo nel jazz, delle risorse dinamiche e timbriche dello strumento. AkLaff e' un batterista straordinario, che offre un sostegno ritmico scattante, con momenti di intensa spettacolarità.

Le parole dell'indirizzo finale di Wadada al pubblico rappresentano una bella sintesi del Festival: "music is made of love, mind and heart".Chi era presente non può che essere d'accordo.


 


ALESSANDRA BEVILACQUA

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